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« Risposta #15 il: 30 Ottobre 2013, 10:20:29 » |
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III
Se c'era una lezione, una sola, che la razza umana aveva davvero imparato negli anni del colonialismo spaziale, era che quella che comunemente veniva chiamata “immondizia”, in realtà, non era affatto tale. Dalla moderata differenziazione delle materie riciclabili da quelle organiche che aveva preso piede all'inizio del Ventunesimo Secolo del Vecchio Calendario, si era passati al recupero e riutilizzo di qualsiasi cosa, organica ed inorganica, di origine biologica o minerale, profumata o meno gradevole. Ormai nel pieno dell'era dei monitor portatili avvolgibili, se mai si stampava ancora qualcosa su carta, quella era prodotta riciclando da quelle foglie secche cadute dagli alberi che risultavano meno indicate per la conversione in concime. I gas di scarico dei pochi motori a combustione ancora esistenti venivano raccolti e concentrati per estrarne i solfuri da riutilizzare nell'industria siderurgica. L'acqua piovana, ma anche quella alla base di tutte le bevande gassate era ottenuta depurando e riciclando l'urina umana... questo perché appositi studi avevano dimostrato che, sebbene fosse difficile convincere un uomo a bere un bicchiere d'acqua tiepida purissima ma che egli sapeva provenire dall'uretra di un altro uomo, tale resistenza inspiegabilmente svaniva se nel bicchiere c'era, invece dell'acqua, una gazzosa ghiacciata della stessa identica origine. Certo, si era dovuti arrivare al punto di dover abbandonare la Terra, ormai sovraccarica, prosciugata ed avvelenata, per arrivare a questo grado di maturità ecosostenibile, tuttavia chiunque, nell'Universal Century, avrebbe commentato la tardiva presa di coscienza con un antico adagio: ”Meglio tardi che mai” ...sebbene tutti, in cuor loro, sapessero che più che saggezza quell'adagio grondava scuse e giustificazioni, e che non c'era, non poteva esserci, niente di peggiore dell'essersi accorti tardi di quanto stava accadendo al pianeta. E il trovarsi a bere urina depurata quale bevanda rinfrescante nei momenti di svago, sotto sotto, sembrava un po' a tutti la beffa diabolicamente vendicativa di Madre Natura. Nelle colonie spaziali, gli abitanti riciclavano davvero tutto, consci di poter contare solo in minima parte sulle risorse provenienti dall'esterno. Ma se sui SIDEs la gente piangeva, sulla Luna non si rideva mica, anzi! Pur ricchissima dal punto di vista minerario, il nostro satellite era clamorosamente sprovvisto di risorse di origine organica, per produrre le quali si era dovuta forzare -ancora una volta!- la natura stessa della piccola e fedele compagna della Madre Terra. Mentre le serre delle colonie orbitanti, grazie alla forza centrifuga prodotta dalla loro rotazione, riuscivano ad ingannare le piante al punto da farle crescere in un surrogato di forza di gravità paragonabile a quella terrestre, questo non era fattibile sull'argenteo corpo celeste, dove l'attrazione era insindacabilmente ridotta ad un sesto. Pochissime piante e un numero ancor più ridotto di animali, riuscivano ad attecchire sul satellite senza manifestare presto o tardi delle problematiche: sebbene alcuni vegetali crescessero rigogliosi ed altissimi per il ridotto peso, a tale aumento non corrispondeva un'adeguata fotosintesi, poiché la Luna, i cui moti di rotazione e rivoluzione si equivalgono quasi, mostra sempre la stessa faccia al Sole e sempre la stessa alla Terra, causando nella prima esposizioni solari altissime e difficilmente schermabili, nella seconda una quantità insufficiente d'illuminazione. La soluzione più banale eppure efficiente, le serre pressurizzate, dovevano adattarsi continuamente al problema gravitazionale e rincorrere con costanti aggiustamenti le spesso imprevedibili svolte che ogni singola pianta prendeva in fase di crescita in quegli ambienti, dove la pressione atmosferica era comunque leggermente superiore alla media di milletrentatré millibar presente in natura sulla Terra. Le perdite di interi raccolti erano all'ordine del giorno al punto che avevano permesso lo sviluppo di un fiorente mercato di scommesse sul successo di questa o piuttosto quell'altra coltivazione nell'anno in corso. Gli animali, in compenso, soffrivano quasi tutti di pressione arteriosa bassissima: un problema che si contrastava con costanti flebo di soluzioni saline, auspicando che l'inconveniente si sarebbe ridotto nel prosieguo delle generazioni ma lasciando probabilmente il posto ad altri effetti indesiderati: non si sarebbe mai potuto portare un animale nato sulla Luna su una colonia o sulla Terra a meno di volerlo vedere schiattare di fatica sotto il suo stesso peso, le varie progenie avrebbero reagito diversamente alle cariche batteriologiche degli esseri umani rispetto ai loro antenati terrestri, i quali erano invece del tutto indifferenti ad esse... per non parlare dell'oggettiva difficoltà pratica, ad esempio, nel mungere una mucca, le cui mammelle sono state progettate da millenni di adattamenti evolutivi perché funzionassero sulla Terra, non nelle attuali condizioni di gravità ridotta. I rifiuti biologici riciclabili, insomma, sulla Luna valevano oro o perlomeno quanto i prodotti biologici “nuovi”, essendo perfino quotati in Borsa. Una città spiccatamente industriale come Von Braun City aveva bisogno di riciclare ogni giorno tonnellate di rifiuti organici per il sostentamento della sua popolazione, la quale produceva, nel corso delle sue attività, ogni giorno tonnellate di rifiuti organici. Il luogo dove questa sorta di cane ecologico si mordeva più ferocemente la coda era il comprensorio degli stabilimenti della Anaheim Electronics, un agglomerato di oltre 120 Km quadrati di uffici e catene di montaggio nel quale lavoravano ogni giorno, incessantemente e su tre turni di otto ore ciascuno, qualcosa come diciottomila operai, cui andavano aggiunti altri tremila tra impiegati e manager negli orari d'ufficio. Senza essere troppo distanti dal vero, si poteva asserire che Von Braun fosse la città lunare più popolosa anche solo grazie all'apporto di questa blasonata compagnìa, leader mondiale nella costruzione di veicoli terrestri e spaziali, telecomunicazioni, applicazioni tecnologiche e, soprattutto, armamenti. Nel comprensorio della Anaheim non si entrava facilmente: come per ogni compagnia specializzata nelle forniture militari, l'accesso al pubblico era fortemente limitato e controllato, le visite d'istruzione per le scolaresche avevano liste d'attesa di tre mesi con doppio stralcio del personale docente accompagnatore e dei singoli studenti, la stampa veniva convocata raramente ed in apposite strutture appartenenti alla società ma poste al di fuori dell'area principale, mentre i dipendenti erano forniti di pass di sicurezza a quadrupla chiave di verifica: PIN personale, lettura delle impronte della mano sinistra, lettura dell'iride, riconoscimento vocale. I sistemi di sicurezza negli edifici perimetrali e nel muro di cinta che delimitava l'area constavano di numerosi sensori, perlopiù spettrografi ad attivazione organica con margine di lettura nell'ordine del decimetro cubico. Se sulla Luna ci fossero stati dei topi, non sarebbero riusciti ad entrare nel comprensorio dell'Anaheim senza far scattare gli allarmi, il sistema di sicurezza era di fatto considerato uno dei dieci più sicuri al mondo, sicuramente il più sicuro nell'industria privata. Eppure, una falla c'era... Una serie di carrelli robotizzati gialli delle dimensioni di un trattore agricolo, facevano costantemente la spola dai vari edifici del comprensorio fino alla sezione di smaltimento e recupero dei rifiuti organici. In questa sezione, posta a ridosso di uno dei muri di cinta del comprensorio, partivano e arrivavano due ulteriori tipologie di veicoli robotizzati, ancora più grandi. La prima, trasportava i rifiuti organici non immediatamente riciclabili per ben centottanta chilometri attraverso le lande disabitate del Mare della Tranquillità fino ad un'apposita centrale di trattamento, appartenente alla società, ma messa a disposizione della municipalità tutta per usufruire delle risorse recuperate. La seconda, proveniva da detta centrale e trasportava, lungo lo stesso tragitto, le sostanze già parzialmente trattate dalla centrale alla sezione di smaltimento dell'Anaheim. Da impresa d'altissimo profilo quale era, la AE poneva la massima cura nel recuperare e riutilizzare più volte i suoi stessi rifiuti e quanti altri le riuscisse d'ottenere, perfino vendendo gli eventuali surplus non necessari a terzi. I trasporti da e per la centrale non erano un bel vedere: somigliavano ai camion della spazzatura del tardo medioevo terrestre, tra il ventesimo ed il ventunesimo secolo, con le sole differenze di essere totalmente automatizzati e mossi da motori elettrici alimentati da pannelli solari coadiuvati da un minuscolo ma efficiente reattore a fusione nucleare. Ben poco differente dai camion della spazzatura del passato, invece, era il grado di pulizia di questi automezzi, e di uno in particolare, talmente sudicio da far scattare ad ogni passaggio l'allarme perimetrale di rilevamento organico, che pure in quel tratto della recinzione aveva, per ovvie ragioni, sensibilità calibrate ben più in basso del resto del comprensorio. Un inconveniente che avveniva mediamente sei volte al giorno e al quale nessuno del personale di sicurezza della Anaheim badava più, vista la sgradevole incombenza che sarebbe conseguita al fermare il veicolo ed ispezionarlo da cima a fondo. Quel giorno, dopo l'ennesimo falso allarme, un sacco di materiale biodegradabile dal colore nero e della capacità di circa trecento litri, apparentemente pieno come un uovo, rotolò dolcemente via dal container del trasporto robotizzato, giù in strada, per poi incastrarsi con precisione millimetrica sotto la scocca di uno dei carrelli robotizzati di colore giallo che facevano la spola tra gli edifici e la centrale di smistamento rifiuti. Non un carrello qualsiasi, ma proprio uno che stava tornando dalla centrale alla palazzina di provenienza: la torre che, dal centro del comprensorio, si innalzava per otto piani. Otto piani zeppi di uffici dirigenziali. Nel rientrare nel seminterrato della torre dove i nastri trasportatori stavano disponendo il carico di rifiuti successivi, il carrello robotizzato giallo percorse una curva estremamente dolce e lenta. Nonostante la ridicola accelerazione angolare, il sacco nero si staccò violentemente dalla scocca e rotolò molto convenientemente tra i nastri trasportatori, finendo su uno di quelli che scorrevano di ritorno verso i piani superiori dell'edificio. Una volta trasportato dal seminterrato al piano terra, Kai Shiden rotolò fuori dal sacco biodegradabile e, afferrando i lembi della casacca da operatore ecologico che indossava per distenderne le sgualciture, infilò di soppiatto la porta che conduceva alla tromba delle scalette antincendio...
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ihrBtg
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« Risposta #16 il: 30 Ottobre 2013, 10:21:02 » |
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La tromba delle scale saliva per tutti gli otto piani ed era deserta. Stando bene attento ad evitare di farsi inquadrare dalle poche telecamere di sorveglianza, Kai salì le prime quattro rampe e si trovò al primo piano, tre livelli al di sotto di quello che era il suo obiettivo. Qui, notò il primo inghippo al suo piano d'infiltrazione filato finora così incredibilmente liscio: le porte d'accesso alle scale antincendio potevano essere aperte dall'interno dei singoli livelli, piano terra incluso, a mezzo di una comune maniglia antipanico ma, per rientrare ai piani, occorreva effettuare il solito login a quattro chiavi mediante un apposito lettore posto di lato alle singole porte. Di fatto, si trovava intrappolato nella tromba delle scale. Non perdendosi d'animo, Kai trasse altri due sacchetti per la spazzatura dalle tasche, vi soffiò dentro gonfiandole parzialmente, ne legò le aperture facendo loro assumere la parvenza di sacchetti parzialmente pieni, salì con le stesse identiche precauzioni le rampe che lo separavano dal quarto piano e si mise in attesa appena prima della porta d'accesso al piano. Passarono circa venti minuti, prima che qualcuno aprisse la porta: un giovane impiegato in completo blu scuro e cravatta rossa con fermaglio personalizzato della Anaheim fece capolino, brandendo una sigaretta elettronica spenta fra l'indice ed il medio della mano destra. Vedendo l'intruso, il giovane rimase impietrito dalla sorpresa, con la e-cig non ancora accesa avvicinata alle labbra. Kai, che negli anni aveva preso e smesso più volte a fumare vere sigarette di tabacco, osservò per un breve compassionevole istante il dettaglio, poi agì fulmineo per non lasciare all'altro il tempo di elaborare troppo la situazione. “Permesso!”, disse con un tono brusco ed arruffato. “Ma lei cosa ci fa, qui?”, domandò il tizio frapponendosi tra lui e la porta, che si richiuse alle sue spalle con uno scatto. Kai si trattenne dal sibilare una bestemmia e cercò di non mandare a monte da solo la sua copertura: alzò i sacchetti all'altezza del viso dell'uomo e li agitò velocemente, per poi riallontanarli prima che questi potesse esaminarli troppo bene. “Secondo lei cosa faccio? Raccolgo le schifezze che qualche incivile getta lungo le scale!”, rispose con lo stesso tono di prima. Il giovane sorrise guardando la sua fantasmagorica sigaretta a zero emissioni e ribatté: “Ma qui c'é un robot, che si occupa di questo!” Già, evidentemente il tizio era solito farsi le sue fumatine lì e sapeva bene come veniva effettuata la pulizia... “Dovrebbe esserci! Ma quel catorcio ha aspettato che fosse di turno il sottoscritto, per guastarsi!”, ribatté rapido Kai, aggiungendo: “Guardi, non mi hanno saputo fornire nemmeno dei guanti per maneggiare questa robaccia!”, e agitò nuovamente e più velocemente i sacchetti pieni di nulla davanti al viso del tizio, che si ritrasse schifato e convinto dalla sua immaginazione d'aver distintamente avvertito degli odori rancidi e ignoti provenire dai contenitori. Il giovane guardò Kai con commiserazione e fece per dargli un'amichevole pacca sulla spalla con la sinistra, ma ci ripensò e ritrasse la mano. Kai lasciò passare un attimo di imbarazzato silenzio, poi indicò la porta con un cenno del mento e mostrò nuovamente le mani impegnate con i due finti pacchi. “Le spiace?!”, brontolò. L'altro vide una facile e dignitosa scappatoia dallo sgradevole incontro e subito agì sul pannello di apertura della porta digitando un numero, facendosi leggere dita ed iride e biascicando il suo nome ad un microfono. La porta si sbloccò con uno scatto e l'uomo la tenne aperta per Kai sorridendo. Kai farfugliò un “Grazie” ed entrò. Prima ancora che la porta si richiudesse del tutto, i sacchetti erano di nuovo sgonfi ed infilati nelle sue tasche.
“Sei riuscito ad entrare all'Anaheim facendo al contrario il percorso dei rifiuti organici?”, domando Sayla, visibilmente divertita. Kai cercò d'accomodarsi meglio sul grande divano di pelle bianca, dandosi un leggero tono da macho. Non che sperasse minimamente di far colpo sulla sua ex compagna d'armi, ma la conosceva abbastanza da riuscire a cogliere una punta d'ammirazione nel suo commento, il che non faceva mai male. Sayla era sempre una fonte utile per i suoi reportage. “Non credere sia stato facile.”, rispose infine, “Ho dovuto studiare il percorso per qualche giorno e... ungere un paio di tecnici per farmi dire qual'era il convoglio giusto su cui salire.” Sayla si sforzò di restare seria mentre soppesava la risposta, ma durò appena qualche secondo. Un “pfff!” emerse dalle labbra serrate nel tentativo di non ridere. “Credevo volessi delle prove per quello che ti ho appena detto!”, protestò Kai, contrariato. Stavolta il tentativo ebbe l'effetto sperato. “Scusa. Continua pure.”, disse lei, tornata seria. Kai poggiò i gomiti sulle ginocchia e si prese il viso tra le mani. “L'ufficio del nostro amico si trova al quarto piano della Torre, il padiglione principale...”
Convincere la segretaria di Marc Couvet a collaborare era stato per Kai assai più semplice che farsi aiutare dall'impiegato precedente. Era prassi comune, alla Anaheim, assumere donne giovani e di bell'aspetto, ma anche le più belle avevano il solito difetto: presto o tardi invecchiavano. Per una cinquantenne, non importa quanto ancora piacente, il confronto con le nuove arrivate era sempre una gara persa in partenza, spesso si finiva a lavorare in uffici ben nascosti al riparo dalla facciata di bellezza e glamour che dominava i corridoi principali. Ma Marc Couvet era, a quanto si diceva, un tipo molto pratico e che badava al sodo. In più, aveva un aspetto estremamente sgradevole. Quanto bastava per rendere il posto della di lui segretaria meno appetibile per le dipendenti giovani. Kai, dal canto suo, i suoi trentotto anni li portava piuttosto bene. Il tempo aveva ingrigito quasi del tutto i suoi capelli, le rughe avevano fatto capolino, ma una massiccia dose di esercizio fisico costante, sommata al lavoro che spesso gli imponeva il fuggire a gambe levate, avevano mantenuto la sua postura dritta ed il girovita ben al di sotto del livello di guardia. Avvicinare Martha Estevez, la segretaria di Couvet, “per puro caso” un decina di volte al supermarket in cui si servivano i dipendenti della società, scambiando di tanto in tanto qualche cortese battuta, fino a rendersi una faccia nota e simpatica, era stato abbastanza facile. Martha aprì la porta dell'anticamera dell'ufficio di Couvet ridacchiando. “Non avrei mai detto che fossi un collega!”, civettò facendogli cenno di entrare. Kai aveva rivoltato il suo giubbotto da operatore ecologico, all'interno del quale era stato precedentemente cucito l'esterno di una giacca dello staff tecnico dell'Anaheim. “In effetti non capito spesso da queste parti”, rispose alla signora che si era appoggiata allo stipite della porta con fare complice, “il fatto è che i sacchetti ermetici per i rifiuti sviluppati da Mister Couvet non soddisfano più le specifiche del nostro committente”, le mostrò i sacchetti che aveva già utilizzato precedentemente, adesso opportunamente strappati sul fondo, “ed é meglio che ce ne accorgiamo noi, prima che se ne accorga il cliente!”, aggiunse in tono confidenziale. “Mmmm, molto saggio, caro. Però ero convinta che il signor Couvet si occupasse solo di armamenti!” “Infatti”, sorrise Kai, “questi sono gli esemplari più recenti di un progetto che lui aveva supervisionato dieci anni fa, quando era ancora alla sezione di sviluppo ecotecnologico!” “Non fanno più le cose bene come una volta!”, convenne Martha, “attendilo pure qui, ma sappi che é in riunione e non dovrebbe tornare prima di mezz'ora!” Kai diede un'occhiata attraverso la porta a vetri che separava l'anticamera dall'ufficio vero e proprio. Viste le particolari condizioni fisiche di Couvet, non era stata applicata alcuna chiusura particolare... perché mai ne avrebbe avuto bisogno, poi? Si trovava al centro del palazzo centrale del centro direzionale della più importante centrale di sviluppo tecnologico della Sfera Terrestre, dopotutto! “Oh”, rispose sorridendo dopo aver attentamente analizzato la situazione, “sono convinto che troverò un modo per ammazzare il tempo!” “Se non ci dovessi riuscire, puoi sempre fare un salto da me nell'ufficio accanto!”, suggerì Martha giocherellando con un ciondolo d'argento a forma di conchiglia che le scendeva nel generoso décolleté, ammiccando. Kai deglutì e la saliva gli andò di traverso facendolo tossire, ma riuscì ad abbozzare un “Contaci!” che a Martha dovette sembrare abbastanza sincero, dato che girò sui tacchi e uscì dalla stanza ancheggiando e canticchiando una qualche melodia sconosciuta, senza smettere di tormentarsi il ciondolo. Kai finse di seguirla con lo sguardo, poi si voltò verso la porta a vetri, si asciugò con la manica la saliva che la tosse aveva fatto colare fuori dalla bocca ed entrò in un battibaleno. In appena tre passi, era già davanti alla scrivania di Couvet, intento ad esaminare il gigantesco touchscreen ricavato sul ripiano. Tracciando un cerchio con l'indice ne invertì di 180 gradi l'orientamento ed inizio a pigiare sulle cartelle del desktop, aprendo varie finestre tridimensionali che venivano proiettate con ologrammi davanti al suo viso. Preso dalla foga di penetrare nell'ultimo nascondiglio di un vecchio nemico, non notò minimamente che, sebbene Couvet non fosse in ufficio, un uomo in giacca nera era seduto al mobile bar giusto al lato della porta a vetri. Questi posò sul tavolino del mobile il suo drink, si alzò silenziosamente dallo sgabello ergendosi nel suo metro e novanta di altezza, si slacciò il bottone anteriore della giacca, arrivò alle spalle di Kai, lo osservò lasciandolo fare per qualche secondo ancora, fino ad intuirne le intenzioni senza rischio di fraintendimento e, infine, gli assestò un micidiale pugno dietro la nuca. Kai rovinò sul tavolo facendo rimbalzare due volte il capo sullo schermo tattile. All'improvviso, attorno al suo viso non c'erano più ologrammi, ma solo il buio pesto.
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kurHia
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« Risposta #17 il: 30 Ottobre 2013, 19:36:46 » |
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Ottimo capitolo; quindi Kai è riuscito astutamente ad infiltrarsi all'AE, facendo pure il provolone con la segretaria, molto scalto, come sempre. Però s'è fatto infilare in un sacco della spazzatura, quindi è rotolato qua e là e poi s'è fatto pestare da un colosso forzuto, non posso non godere di tali tristi eventi. Eh, sì; io mi diverto con poco!
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"In Sayla We Trust"
"Sayla Mass! È per assicurarci che questo simbolo dell’Universo non sia più sconvolto che siamo nati! Sayla Mass! È per restituire un vero potere nelle sue mani che sorgiamo noi, la Brigata di Sayla!"
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ororbet
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« Risposta #18 il: 31 Ottobre 2013, 06:51:57 » |
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devo ancora leggerlo, non ho tempo
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ihrBtg
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« Risposta #19 il: 12 Novembre 2013, 19:57:14 » |
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IV
Quando Jean Joseph de Lagrange, nel suo studio del “Problema dei Tre Corpi Semplificato”, calcolò la posizione dei punti di equilibrio gravitazionale che più tardi presero il suo nome, correva l'anno 1775 del Vecchio Calendario. Il matematico non aveva modo d'immaginare che, nel sistema Terra-Luna, alcuni di quei punti e precisamente L4 ed L5, i cosiddetti “punti toroidali”, fossero già occupati da corpi celesti. L'astronautica era ben al di là da venire, dopotutto, ed anche la tecnologia per l'osservazione dalla Terra era abbastanza primitiva. Fu solo duecento anni più tardi che un astronomo polacco, Kazimierz Kordylewski, s'accorse che in quelle aree della Sfera Terrestre orbitavano due estesi sciami di minuscoli corpi celesti, del tutto inosservabili per buona parte dell'anno. Questi accumuli presero appunto il nome di “Nubi di Kordylewski” e per molti anni, data la loro stabilità precaria, resero rischioso posizionare dei satelliti artificiali nelle loro vicinanze, mitigando di fatto l'utilità dei due punti toroidali. Solo con lo svilupparsi dell'attività nello spazio fu possibile mappare le Nubi di Kordylewski con precisione sufficiente a poter immettere in orbita Stazioni Spaziali permanenti senza correre il rischio che queste fossero crivellate dagli impatti con i minuscoli meteoriti. Con l'avvento del programma S.I.D.E., Settlement Initiative for the Demographic Emergency, buona parte dei vecchi satelliti artificiali divennero inutili, visto che le colonie, posizionate nelle orbite più strategiche possibili, avrebbero potuto espletarne le stesse funzioni assieme a molte altre. Fu allora che i piccoli sciami col nome polacco, infinitamente meno pericolosi degli altri corpi celesti erranti come meteoriti o comete, per resistere ai quali i SIDE erano ampiamente equipaggiati, caddero nel dimenticatoio accademico e nessuno di fatto se ne preoccupò più. “O così mi hanno sempre fatto credere!”, commentò amaramente Kai mentre, guardando attraverso il finestrino del piccolo shuttle, osservava i sassi spaziali scivolare lungo lo scafo ed impattarvi di tanto in tanto, prontamente respinti da un robusto I-field. Sayla, che occupava il sedile accanto a quello del reporter, scrutava con attenzione lo spazio immediatamente più lontano attraverso un binocolo agli infrarossi e solo dopo qualche secondo di assoluto silenzio rispose con un laconico: “Il miglior nascondiglio é laddove nessuno ha il fegato di cercare!” Già, rifletté Kai, un conto era proteggersi da una occasionale porzione dello sciame di micrometeore stando all'interno di una colonia, ben altro era andare a sguazzare nel fitto delle Nubi di Kordylewski con un piccolo shuttle, per quanto ben attrezzato. Nel tentativo di scacciare il pensiero, il giornalista volse lo sguardo verso il pilota della navetta: Haro, incastrato in una sede semisferica ricavata ad hoc nel pannello del cockpit, era stato convenientemente collegato al sistema computerizzato di navigazione. Il piccolo robot da compagnia aveva perso la sua proverbiale loquacità, concentrato su chissà quante migliaia di processi informatici. Oppure, semplicemente, aveva smesso di parlare con gli umani per ciarlare col computer di bordo... “Sai, non ti facevo tipa da questi giocattoli”, disse Kai. “Se intendi Haro, questo non é affatto un giocattolo”, rispose seria Sayla. Il reporter per un attimo stentò a credere alle proprie orecchie. “Per carità, Sayla, capisco che un Haro possa riportare a noi del vecchio equipaggio della White Base un sacco di ricordi, ma da qui al dire che non é un giocattolo... e fidarsi al punto di fargli pilotare lo shuttle...”, sentenziò infine. “Questo non é un Haro”, Sayla si voltò e lo indicò, “guardalo bene, non puoi non riconoscerlo!” Kai si avvicinò al robot per quanto le cinture di sicurezza del sedile gli consentissero e, allorchè riconobbe alcuni dettagli, sgranò gli occhi. “Per la miseria, questo é l'originale!”, sbottò, “Quello di Amuro!” “É molto di più”, sorrise Sayla, “Amuro cercò di aggiornarlo ogni volta che poté. Poco prima della battaglia di A Baoa Qu, consapevole del fatto che il Gundam non sarebbe tornato, impiantò uno dei suoi cervelli di ricambio in Haro...” Kai sentì la mascella che gli veniva divelta dallo stupore. “Vuoi dire che...” “Sì”, confermò la ragazza, “corpo a parte, questo é in tutto e per tutto l'RX-78-2, così com'era nel momento del suo massimo splendore tattico-operativo.” Kai lo osservò meglio e con rinnovato rispetto. “Te lo ha lasciato Amuro?” “Mi disse che non avrei potuto avere guardia del corpo migliore”, sorrise amaramente lei, accomodandosi meglio sul sedile e riprendendo la sua osservazione col binocolo. Kai attese un attimo prima di osare. “Ti manca molto, vero?” Sayla sospirò. “Mi chiedo solo cosa farebbe adesso lui, se avesse saputo quello che mi hai raccontato!”, ammise.
Quando Kai rinvenne, per qualche istante, gli sembrò d'avere ancora il viso attorniato dagli ologrammi proiettati dallo smart desk dell'ufficio di Couvet. In realtà si trattava degli strascichi dello stordimento repentino, qualcosa che nella cultura popolare veniva descritta con l'allocuzione: “vedere le stelle per il dolore”. “Ammetto di essere compiaciuto dalla sua insistenza, mister Shiden”, esordì una figura indistinta di fronte a lui. Kai si sforzò di mettere a fuoco la scena: davanti a lui c'era un uomo di forse settant'anni, col volto deturpato da due profonde cicatrici verticali che correvano quasi simmetriche lungo le gote. Tra i due solchi, la pelle era irregolare ed accartocciata, risultato di una gravissima ustione che aveva interessato anche la quasi totalità del cranio, lasciando pochi ciuffi di capelli qui e la, una sola ciocca dei quali era abbastanza lunga da ricadere sul viso, coprendo o quantomeno distogliendo l'attenzione dall'occhio sinistro, una protesi in vetro di ottima qualità, ma pur sempre una protesi. Alla fine del mento appuntito, un foulard rosso copriva il collo del misterioso interlocutore, per poi allacciarsi elegantemente sotto il colletto di una camicia di sartoria fasciata da un completo fatto su misura. L'uomo era seduto su un'antica sedia a rotelle di fattura europea, cui era stato applicato con perizia degna di restauratori rinascimentali un piccolo motore elettrico, asportabile se necessario. Soddisfatto di aver verificato l'identità del suo interlocutore, Kai passò ad esaminare la sua situazione: era seduto su una poltrona, guardato a vista da un energumeno in abito scuro. Tuttavia, era libero. Tornò a concentrare la sua attenzione sul paraplegico. “Monsieur Covet! Prego, stia pure comodamente seduto!”, disse. L'energumeno gli assestò un pesante ceffone sulla guancia, girandogli la testa di novanta gradi, ma non riuscì a cancellare il suo ghigno di scherno. “É per questo che ha insistito per settimane perché le concedessi un'intervista, Shiden? Per provocarmi con una battuta stupida?”, scandì il vecchio. “No”, rispose Kai calmo, “la battuta era per ringraziarla per avermi costretto ad infilarmi così nel suo ufficio, a furia di negarsi!” Couvet agì sulla leva di comando della sua sedia, allontanandosi da Kai. “Ammetto d'aver letto qualcuno dei suoi articoli di tanto in tanto, Shiden”, disse con sufficienza, “ma da qui al doverle concedere la mia disponibilità per forza ce ne corre”, girò attorno al tavolo elettronico al centro dell'ufficio, “e men che meno tollero le invasioni della mia privacy! Per cui si ritenga fortunato, se non la denuncio!”, e aggiunse, rivolgendosi al gorilla, “Buttalo fuori!” Il tizio afferrò con forza Kai e lo rimise in piedi, avviandolo ben poco amichevolmente verso la porta. “Oh, sono ben certo che non mi denuncerà!”, ribatté svelto Kai, “dopotutto, questo é solo un banale malinteso! Io non volevo disturbare il signor Couvet...”, puntellò i piedi sulla soglia della porta mentre l'altro cercava di spingerlo fuori, “... io voglio parlare col Colonnello M'Quve!” Al sentire queste parole, il vecchio alzò una mano. Il tirapiedi, che non aveva mai mollato Kai, smise di spingerlo e lo gettò di nuovo sulla poltrona. Dopo un istante di silenzio nel quale studiò l'intruso con lo sguardo più penetrante che la sua visione monoculare gli consentisse, M'Quve parlò. “Shiden, non sei mai stato un gran combattente e nemmeno un gran giornalista. Non so cosa diavolo ti passi per la testa... pur di non permettermi di sbatterti fuori di qui, preferisci costringermi ad ucciderti!” “Oh, lei non mi ucciderà, Colonnello!”, rispose sicuro di sé Kai, “Altrimenti, entro tre ore da adesso, quindici editori di mia fiducia riceveranno una bella e-mail con un scoop su uno dei criminali di guerra più ricercati della storia!”, Kai controllò con teatralità il suo orologio da polso, “Chissà chi di loro pubblicherà la notizia per primo!” M'Quve si morse un labbro. “Cosa diavolo vuoi?”, domandò infine. Kai si accomodò meglio sulla poltrona. “Mentre svolgevo delle ricerche su una vecchia astronave che sembrerebbe sparita nel nulla, mi sono imbattuto in una foto del suo varo. Tra i personaggi presenti ho riconosciuto lei, anche se il tag sulla foto parlava di un certo Mark Uber, azionista della Massive Dynamics...” M'Quve scoppiò in una risata. “Stai cercando di scrivere un articolo sulla Topkapi?”, urlò sporgendosi dalla sedia a rotelle e subito riaccomodandosi, “Beh, tanti auguri! Non se ne sa più nulla da prima che scoppiasse la Guerra di Un Anno!” “No”, rispose Kai senza fare una piega, “voglio sapere cosa ci fanno, in quella stessa foto...”, sfilò da una tasca della giacca una stampa di un'istantanea e la gettò sul tavolo. M'Quve la raccolse e la esaminò. Un gruppo di almeno venti persone, i visi di cinque dei quali erano stati cerchiati. Uno era il suo. Gli altri... “... il dottor Minovsky, che allora lavorava per la Zeonic, Gihren Zabi, Cardeas Vist della Vist Foundation... ed il dottor Ray, della Anaheim Electronics!”, elecò sorridendo Kai.
“Ci siamo, la vedo!”, trasalì Sayla, “Haro, rilevamento tre-due-cinque, alzo quindici gradi, distanza stimata quindici chilometri!” Haro ruotò nella sua sede fino ad allinearsi con la direzione indicatagli. “Bersaglio acquisito, miss Sayla, rotta d'avvicinamento impostata!” Kai, che s'era lasciato fluttuare attorno al piccolo robot sfruttando l'assenza di peso, venne disarcionato dal suo movimento repentino e, pur con qualche difficolà, riguadagnò il sedile ed agganciò le cinture di sicurezza. “Fammi vedere!”, disse a Sayla. Lei gli passò il binocolo e gli indicò la direzione. Kai guardò attraverso lo strumento ed improvvisamente si sentì piccolissimo: pur appartenendo alla stessa classe della ben nota e gigantesca Jupitris di Paptimus Scirocco, la Topkapi presentava tutta una serie di pod e serbatoi aggiuntivi che si dipartivano dallo scafo principale, come le zampe di un colossale insetto. “Per non riuscire a scovarla in tutti questi anni, vuol dire che davvero da queste parti non ci hanno nemmeno provato, a cercarla!”, disse infine. “Probabilmente, chi era già a conoscenza dei segreti della Topkapi l'ha cercata usando il radar”, ammise laconicamente Sayla, “ma grazie alle Nubi, questa porzione della Sfera Terrestre é l'unica in cui i radar sono davvero inutilizzabili, a prescindere dalla bufala delle particelle Minovsky” Già, la bufala delle particelle Minovsky, rifletté Kai.
“La Massive Dynamics era leader nella costruzione delle colonie spaziali, ma ad un certo punto il Governo Federale si rese conto che non se ne sarebbero potute costruire all'infinito”, sospirò M'Quve accendendosi un sigaro. “Venne riattivata la legge per il controllo delle nascite del periodo precoloniale”, rispose Kai. Una nuvoletta di fumo azzurro volteggiò tra i due. “Ovviamente, alla ditta questo non garbava affatto, perciò si ritenne necessario inventare un nuovo business per tirare avanti...”, continuò M'Quve. “...E fu così che la Massive Dynamics si divise in Zeonic e Anaheim per vendere le forniture militari ad entrambi gli eserciti!”, rispose Kai battendo le mani. “No.”, rispose secco l'anziano ufficiale. Kai sussultò. Era convinto d'aver intuito la storia, ma era chiaro che stava per venire fuori altro... “Nessuno avrebbe osato sfidare la Federazione, ai tempi. Per convincere le colonie ad innescare una guerra d'indipendenza, dovevamo far credere loro che esistesse un modo per aggirare impunemente i sensori dei federali...”, continuò M'Quve, greve. “E, contrariamente a quanto penso io, questo mezzo non erano i Mobile Suit, giusto?”, suggerì Kai. M'Quve fece una smorfia. “Le particelle Minovsky”, ammise, “non esistono. Non sono mai esistite. Non esistono gli psy-commu. Non esistono i NewType.” Kai si sentì mancare la terra sotto i piedi.
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« Risposta #20 il: 12 Novembre 2013, 19:58:30 » |
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“Dev'essere questo”, indicò Sayla. Kai alzò lo sguardo: la saracinesca dell'hangar era alta oltre trenta metri. Purtuttavia, sembrava un'entrata secondaria, se paragonata agli immensi interni della Topkapi. Era stupefacente il fatto che una nave così immensa contenesse ancora aria respirabile ad una pressione atmosferica ideale. Nonostante all'esterno lo scafo fosse completamente buio, all'interno era tutto perfettamente funzionante. Anche la chiusura di sicurezza di quella saracinesca. “Dobbiamo sbrigarci”, soggiunse Sayla richiamando Kai dai suoi pensieri, “gli uomini di M'Quve potrebbero arrivare qui da un momento all'altro!” Già, gli uomini di M'Quve. Troppo tardi Sayla avevano colto il vero motivo delle rivelazioni del vecchio colonnello. Solo al momento di attraccare sulla gigantesca astronave, il radar dello shuttle era stato abbastanza lontano dalle Nubi di Kordylewski da poter rilevare lo squadrone di Geara-Zulu in avvicinamento. L'esercito privato di M'Quve. “Haro, tocca a te!”, disse Sayla. Il piccolo robot si avvicinò alla saracinesca ed attivò il suo modem wireless per interagire con la chiusura di sicurezza. Dopo qualche secondo, il pannello di sicurezza s'illuminò e la saracinesca iniziò ad aprirsi. Kai, Sayla e Haro si fiondarono dentro, ma si bloccarono esterrefatti dopo pochi passi. “É lui”, disse Sayla. Kai lo guardò a sua volta. Non c'era dubbio, in effetti. Due grossi radomi di antenne radar avevano preso il posto delle beam sabers, gli avambracci montavano dei lanciatori multipli di missili, il beam rifle era il più grosso che avesse mai visto e, soprattutto, ovviamente non c'era alcuno scudo... ma era il Gundam, nella sua variante originaria. L'RX-78. Il Gundam dei Gundam. Una vibrazione percorse lo scafo, un rumore di passi in corsa risuonò lungo i corridoi. Kai si voltò. “Prendilo e portalo via!”, gridò a Sayla, mentre si lanciava in corsa fuori dall'hangar. “Tu cosa farai?”, rispose lei. “Ti faccio guadagnare tempo!”, rispose Kai prima di sparire oltre la saracinesca.
“Convincemmo Minovsky, che era un fisico di terz'ordine ed un alcolizzato, a sostenere la scoperta delle particelle. Gli permettemmo di battezzarle col suo nome. Gli abbiamo fatto vincere il Nobel.”, ammise M'Quve, “ma, nella realtà, la Massive Dynamics manometteva sistematicamente i sensori dei veicoli federali durante le manutenzioni periodiche, in modo che rilevassero solo quello che noi volevamo.” “E perché introdurre i Mobile Suit?”, sbottò Kai. “Modificare i veicoli già esistenti non sarebbe stato un gran guadagno, così inventammo la Zeonic e la Anaheim... convincemmo Gihren e Dozul che l'effetto Minovsky era stato scoperto per caso durante le prove dei prototipi di Mobile Suit, causato dagli scarti dei nuovi reattori compatti Minovsky-Ionesco”. “Avete convinto Gihren che, se fosse scoppiata una guerra, usando i Mobile Suit avrebbe potuto vincerla?”, balbettò Kai. “Di più”, ammise M'Quve, “lo istigammo, tramite la Zeonic, e corrompemmo alcuni alti ufficiali federali perché, almeno inizialmente, non adottassero gli stessi prodotti, proposti loro dalla Anaheim. Arrivammo a fingere di licenziare alcuni dei nostri per far fondare loro altre ditte che fingessero di far concorrenza a Zeonic ed Anaheim. Rendemmo la via dei Mobile Suit universalmente accettata e credibile.” “Avete di fatto scatenato una guerra... con una truffa!”, realizzò Kai. Un lampo attraversò l'occhio buono di M'Quve. “Il nostro scopo era fare in modo che anche la Federazione acquistasse i Mobile Suit, per questo fornimmo a Gihren i motori per lanciare Island Iffish dentro l'atmosfera terrestre. Molti credono che l'operazione British fallì nel colpire Jaburo. In realtà fu la Massive Dynamics a far detonare la colonia prima che decapitasse lo Stato Maggiore Federale... Facemmo liberare Revil dalla prigionia, dopo avergli fatto subire in prima persona quello che i Mobile Suit potevano fare! la Federazione sarebbe stato un cliente assai più munifico di quanto avrebbe potuto mai essere Zeon!” Kai rimase in silenzio per un attimo. Anche per uno come lui, che amava definirsi un cinico bastardo, l'idea di due miliardi di morti in pochi giorni, tutti a causa di un contratto di forniture, era davvero troppo da mandar giù. Ma M'Quve non aveva di simili pensieri, non adesso perlomeno, e continuò spietato il suo racconto. “Poi però Gihren si montò la testa, voleva annientare la Federazione e farlo presto... non potevamo permettercelo, la guerra doveva durare il più possibile. Per questo permettemmo a Tem Ray di sviluppare il Gundam.” “Il padre di Amuro... sapeva?” M'Quve ghignò. “Ho conosciuto molti figli di puttana arrivisti, in vita mia... ma Tem Ray... meritava la fine che ha fatto. La cosa migliore che sia mai capitata ad Amuro Ray é l'essere rimasto orfano!” “Cosa aveva davvero di così speciale, il Gundam?”, trovò la forza di domandare Kai. “La spiegazione ufficiale? Aveva un modulo d'apprendimento delle battaglie. La spiegazione vera? Il suo cervello elettronico includeva un piccolo radar che a volte, su base randomica, funzionava!” “Amuro diceva che ogni tanto il Gundam sembrava facesse da sé...”, ricordò Kai. “Quel ragazzo non era un caso del tutto disperato!”, sorrise M'Quve. Kai cercò di tirare le somme della questione: la Massive Dynamics si vede bloccare la costruzione delle colonie, quindi crea due sussidiarie che riforniscano di armi fallate gli arsenali delle due fazioni e convincono la più debole delle due di poter davvero vincere. La guerra è innescata. Poi, quando la fazione numericamente più forte é in ginocchio, le offrono le stesse armi del nemico... la sconfitta é scongiurata, così come la fine del conflitto, e gli affari continuano. Restava solo una cosa, non chiarita. “Cosa c'entrano, in tutto questo, i Newtype?”, domandò.
Kai era ormai convinto che il tempo concessogli su questo mondo si fosse esaurito. Legato alla sedia, pesto e malconcio, vide M'Quve sparire dentro l'ascensore della plancia della Topkapi lasciandolo in balia di due dei suoi uomini mascherati. Alzò lo sguardo verso la guardia alla sua destra, la quale gli aveva poggiato la canna di una pistola sulla fronte... a causa del passamontagna, poteva vedere solo gli occhi di quella guardia, occhi di un blu glaciale eppure contratti in un'espressione feroce. Sentendo un brivido lungo la schiena che sembrava un conto alla rovescia per l'oblìo, chiuse gli occhi. Sentì distintamente l'indice che si serrava sul grilletto. Strinse i denti e la vescica, pur consapevole che le viscere, “dopo”, si sarebbero subito rilassate. BANG! L'uomo alla sua sinistra s'accasciò al suolo tenendosi lo stomaco che zampillava fiotti di sangue. Kai riaprì gli occhi mentre la guardia dagli occhi blu rinfoderava la pistola e si sfilava il passamontagna. “Filiamo di qui!”, ordinò Sayla, risoluta come non mai. Kai restò per qualche secondo congelato in un sorriso ebete. Poi si riprese e, mentre la sua vecchia amica lo liberava dai legacci, chiese: “Ma allora chi diavolo lo sta pilotando, l'Omega Gundam?” Sayla lo afferrò per la collottola e lo rimise in piedi. “Il miglior pilota che un Gundam possa mai avere!”, rispose, e corse verso i pannelli di comando della plancia. “Amuro? Char?!”, pensò Kai, ad alta voce. Sayla si voltò. “No. Gundam stesso!” “Ma... ma... e la faccenda del 'tre volte più veloce' che dicevano i tecnici di M'Quve? Non è la firma della Cometa Rossa?” “Quella era un'altra trovata pubblicitaria. I NewType non esistono, no? In realtà, Casval mi confessò che, al massimo, era più veloce di UN TERZO! Ma Haro potrebbe anche farcela...”, rispose la ragazza mentre agiva sul pannello radio. Lo colpì con un pugno sbuffando di frustrazione. “Kai, aiutami a sintonizzarla, se le particelle Minovsky sono una balla, allora dovrebbero funzionare anche le radio... dobbiamo chiamare Haro... impedire a M'Quve di scappare!” Kai si avvicinò con un'aria stranita ed esordì dicendo: “Sayla, ecco... non sono stato del tutto sincero con te!”
“Quando gli ufficiali più anziani delle due fazioni tirarono fuori delle armi più... tradizionali ed efficaci...”, iniziò M'Quve, mentre schiacciava il mozzicone di sigaro nel posacenere. “...parla del Solar System e del Solar Ray?”, interruppe Kai. M'Quve annuì. “Avevamo già iniziato a sviluppare il nostro business bellico successivo: i mobile armor.”, fece una pausa d'effetto, “Per pilotare i quali, dicemmo, servivano individui dotati di poteri speciali, degli Esper...”, M'Quve proruppe in una risata. “Allora... erano anche loro una truffa?”, sospirò Kai. “Lo spunto ce lo diedero i vaneggiamenti filosofici pseudoscientologisti di Zeon Deykun. L'evoluzione dell'uomo passa per le stelle!”, M'Quve sputò un rimasuglio di tabacco rimastogli tra i denti nel posacenere, poi riprese: “Noi nascondemmo dei radar e delle radio che funzionavano davvero nei Mobile Armour e fornimmo di ricevitori gli elmetti dei piloti. Riciclammo e perfezionammo una vecchia tecnologia sviluppata dai sovietici durante la “Guerra Fredda” dell'ultimo medioevo... Il ”sesto senso” dei NewType? Semplicemente, un radar collegato al loro cervello! La loro capacità di “comunicare” anche nello spazio? Lo facevano via radio, solo che non lo sapevano...” Kai scosse la testa... “Ne ho sentite di storie schifose, in vita mia, ma questa...” “Non é ancora finita, mio caro Shiden. Ci sono due dettagli di cui dobbiamo parlare...”, lo interruppe M'Quve, serio. “Quali dettagli?”, chiese Kai, stupito.
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« Risposta #21 il: 12 Novembre 2013, 19:59:33 » |
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Haro, o meglio il computer dentro Haro, non combatteva da quasi vent'anni. Nondimeno, la macchina alla quale era interfacciato gli risultava comoda nella misura con la quale una scarpa sinistra fatta a mano e su misura può star comoda ad un piede snello, ben allenato, ma destro. L'RX-78-2 sentiva che l'RX-78-99 gli calzava come un guanto sbagliato, ecco. La rinnovata e accresciuta potenza di fuoco inebriava la macchina, per quanto una macchina, pur avanzatissima, possa provare simili sensazioni. L'unico problema era quella che un essere umano avrebbe chiamato “abitudine”, ma che per un robot era un “bug da incompatibilità verso il basso”. Si, insomma, lo scudo non c'era, ma l'RX-78 continuava a gestire il suo braccio sinistro come se esso ci fosse ancora... aggiungiamoci l'inebriamento di cui sopra, ed il pasticcio era stato presto combinato: potendo usare solo l'efficacissimo lanciamissili montato sul braccio destro, visto che il sinistro era impegnato con lo scudo immaginario, adesso il Gundam era a corto di missili. Mentre Haro nel cockpit si dannava per riprogrammare il suo modo di usare il braccio sinistro e poter adoperare anche i restanti missili, il sistema automatico dell'Omega Gundam si rifiutava di selezionare il beam rifle come arma principale in quanto secondo lui, a ragione, di missili ce n'erano ancora a bizeffe. In tutto questo, l'unica cosa su cui entrambe i Gundam erano pienamente d'accordo era la lettura di un apparecchio che, sulla carta, non avrebbero nemmeno dovuto avere: il radar. Il radar diceva che gli otto Geara Zulu superstiti avevano abbandonato la Topkapi ed adesso si stavano avvicinando, il che era un problema visto che ancora non si era deciso con cosa combatterli. Nell'angolo più avanzato del suo sofisticatissimo cervello elettronico, Haro scommise con se stesso che a miss Sayla doveva esser sembrata proprio una gran pensata mettere un Gundam dentro un Gundam. Il radar tracciava il gruppo di Geara Zulu in avvicinamento costante ad ormai meno di quindici chilometri. Allontanarsi avrebbe voluto dire finire nelle Nubi di Kordylewski, annullando l'esile vantaggio del radar funzionante. Avvicinarsi senza aver risolto il conflitto nella selezione dell'arma sarebbe stato l'equivalente robotico del suicidio. Nel frattempo, le poche risorse di sistema di Haro non impegnate dalla gestione del combattimento, risorse che qualora fossero state libere gli avrebbero garantito di riprogrammare con maggior velocità l'impasse, erano impegnate nello svolgere una piccola routine che Kai Shiden aveva inserito nel piccolo robot-palla mentre questo era impegnato a pilotare lo shuttle e Sayla era concentrata nella ricerca della Topkapi...
“Il primo dettaglio, mio caro Shiden, é che stiamo parlando ormai da oltre quattro ore, eppure nessun media sta parlando di me...”, ghignò M'Quve, “ergo, la tua minaccia, come sospettavo, é un bluff!” Kai si guardò l'orologio e si lasciò sfuggire un “Ahio!” “Il secondo dettaglio é che io voglio la Topkapi, o perlomeno l'ultimo Mobile Suit conservato al suo interno, la creazione incompiuta di Tem Ray, l'RX-78-99 Omega Gundam.” “L'Omega Gundam?”, ripeté Kai, sentendosi un po' stupido. “L'unico Mobile Suit mai costruito senza tenere in considerazione l'affare Minovsky. Una macchina vecchia vent'anni ma contro la quale nessun Mobile Suit odierno potrebbe aver scampo.” M'Quve si sporse di nuovo sulla sedia e puntò il dito verso Kai. “Vuoi uscire vivo di qui? Trovami nave e suit!” “Visto che sa che i radar in realtà funzionano, non potrebbe costruirselo da solo, un suit con un radar vero?”, lo schernì Kai. L'energumeno che era sempre rimasto alle sue spalle gli schiaffeggiò la nuca, come fosse solo per ricordargli che era ancora lì. “Non posso”, ammise M'Quve, “Io sono un executive, non un tecnico, e di tecnici radar non ce ne sono più. Il prezzo da pagare per rendere credibile l'affare Minovsky comportava anche lo smettere di formare nuovi specialisti.” “Per cui le serve l'Omega Gundam per copiarlo?” “O i suoi progetti contenuti nella nave, vedi un po' tu!” “E se mi rifiutassi?” “Non usciresti vivo da qui” “E se mi rifiutassi dopo esser uscito vivo da qui?” “Ti troveremmo, non sei difficile da seguire!”, ghignò M'Quve, aggiungendo: “E poi... vuoi scriverlo o no, questo scoop?”
“Hai permesso loro di seguirci???”, urlò Sayla mentre stringeva entrambe le mani al collo di Kai e gli sbatteva ripetutamente il capo sulla consolle radio che tanto, apparentemente non funzionava. Kai annaspava cercando invano di liberarsi dalla morsa e ripetendo stridulo le parole “ho-un-piano-ho-un-piano!” con la poca aria che gli rimaneva in corpo. “Dovevo ammazzarti!”, continuò Sayla imperterrita, “avrei dovuto ammazzare M'Quve e poi ammazzare te, anzi no!”, smise di percuoterlo e lo sbattè al suolo facendolo rimbalzare per aria a causa dell'assenza di gravità, “Dovevo ammazzarti a Sweetwater”, gli puntò contro la pistola. “Quella radio funziona!”, sbottò Kai, riguadagnando il contatto col pavimento. “Come sarebbe a dire?”, chiese Sayla abbassando l'arma. “Haro non può risponderti non perché non ti riceve... ma perché sta già parlando alla radio con qualcun altro!”
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kurHia
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« Risposta #22 il: 13 Novembre 2013, 10:43:37 » |
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Che posso dire? Bellissimo, credo il tuo capolavoro. Haro che pilota il Gundam rende finalmente utile la palla verde, purtroppo Kai è vivo, ma con chi sta parlando Haro?
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« Risposta #23 il: 13 Novembre 2013, 10:49:25 » |
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Haro che pilota il Gundam rende finalmente utile la palla verde
quoto il resto - limabile stilisticamente qua e là , ma non voglio menare troppo il torrone ...
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« Ultima modifica: 13 Novembre 2013, 13:54:26 da artesio »
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« Risposta #24 il: 13 Novembre 2013, 13:47:17 » |
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Il "programma S.I.D.E." !!! Sei un genio!!!
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kurHia
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« Risposta #26 il: 13 Novembre 2013, 14:30:41 » |
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Come potrei non adorare questa storia? Menano Kai, la Divina ha un ruolo di primo piano, che posso chiedere di più? Ah, ecco, che Kai crepi!
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« Risposta #27 il: 14 Novembre 2013, 00:39:40 » |
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Grazie a tutti! Le risposte arriveranno nel capitolo finale. Per le limature, artesio, sono tutto orecchi
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« Risposta #28 il: 26 Marzo 2014, 00:43:44 » |
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V
“Ancora niente?”, domandò nervosamente M'Quve all'ufficiale suo sottoposto, che armeggiava già da diversi minuti con l'interfono a contatto del piccolo shuttle di salvataggio sul quale il commando si era rifugiato dopo aver abbandonato la plancia del Topkapi. “Nessun contatto da Rosencrantz e Guildenstern, Colonnello...”, ammise laconico questi, “forse un problema ai loro comunicatori...”, cercò di spiegare, più a se stesso che al suo comandante. “Rosencrantz e Guildenstern sono morti!”, sbottò invece l'anziano ufficiale, “e senza delle normal suit per agire sul comando manuale dei portelli dell'hangar, noi siamo bloccati qui!” “Mando gli altri a verificare?”, suggerì nervosamente il subalterno. M'Quve sbuffò e tacque per qualche secondo, scrutando il vuoto con l'unico occhio buono rimastogli. Poi, rialzò lo sguardo verso il suo interlocutore. “Non se ne parla”, disse, “Se Shiden é sopravvissuto come temo, ci sta probabilmente osservando attraverso le telecamere di sorveglianza. Aprirebbe il portello esterno della baia d'attracco non appena vedesse il primo di noi che mette il naso fuori dalla navetta, mandandoci tutti al Creatore in una sola mossa... anche io, al posto suo, farei così...” Il tenente osservò in silenzio il suo capo, quindi chiese: “Cosa facciamo, quindi?” M'Quve picchiettò nervosamente col pugno sul bracciolo della sua sedia a rotelle. “Contatta i Geara Zulu rimasti e dì loro di tornare indietro ed aprire il portello dall'esterno... dovranno scortarci fino al limite delle Nubi di Kordylewski... da lì in poi il radar dell'Omega Gundam non dovrebbe più essere un problema!” “Ma signore”, obiettò l'ufficiale, “con il portello chiuso, non c'è modo di stabilire una comunicazione laser con i suit!” “Usa la radio HF dello shuttle”, sorrise M'Quve, “vedrai che funzionerà!” Il tenente si voltò perplesso verso la consolle radio, un apparato che non aveva utilizzato più dai tempi dell'accademia e che dubitava perfino si sarebbe acceso. Parlò al microfono. “Crossbone Team da Crossbone Leader su frequenza Hotel Foxtrot, mi ricevete?”, abozzò. “Forte e chiaro, Crossbone Leader!”, fu l'immediata risposta che tuonò dall'altoparlante. L'ufficiale si voltò verso M'Quve, che ordinò: “Falli tornare qui... e dì loro anche di predisporre un contatto laser con il Quartier Generale!” Il colonnello sorrise e soppesò il piccolo device che stringeva in mano: il comando a distanza per l'autodistruzione del Topkapi. Improvvisamente un led verde cambiò in rosso, e la scritta “OFFLINE” apparve sul minuscolo schermo centrale dell'apparecchio. Il ghigno di M'Quve si spense con il led verde.
Per un istante durato pochi Cicli Macchina, un infinitesimo di secondo, il Gundam dentro Haro schernì quella brutta copia di sé stesso cui era ai comandi per un evidente errore di tracciamento radar. Secondo l'RX-78-99, tutto ad un tratto gli otto Geara Zulu, i quali stavano convergendo in formazione d'attacco a tenaglia verso la loro posizione, avevano invertito la rotta e si stavano ritirando... Inconcepibile, visto che non era riuscito a sparare un solo misero colpo verso di loro negli ultimi, lunghissimi, trentacinque secondi! La memoria del vecchio RX-78-2 di Amuro Ray ricordava benissimo che il Gouf di Ranba Ral era riuscito ad assalirlo per ben due volte in trentacinque secondi, tra le ore 15 e 56 e le 15 e 57 -fuso di Greenwich- del 16 ottobre dell'UC 0079. E quel suit si muoveva sulla Terra, in condizioni di piena forza di gravità! Le due macchine ricontrollarono gli elementi cinematici dei veicoli nemici: nessun errore, stavano tornando sulla Topkapi. Questo voleva dire che Miss Sayla e Kai Shiden erano in pericolo, elaborò la piccola parte di cervello elettronico che ancora supportava le routine amichevoli originarie di Haro. Haro ordinò alla sua personalità-Gundam di comandare all'altro Gundam di far fuoco contro i suit nemici in allontanamento. Ancora una volta il braccio sinistro si estese in posizione per far fuoco con i lanciamissili montati sull'avambraccio, e ancora una volta un messaggio d'errore sentenziò che le armi non potevano essere usate fintantoché lo scudo non fosse stato rimosso dall'avambraccio. “Non c'è scudo su quel braccio! Non c'è scudo su quel braccio!” protestò il sintetizzatore vocale di Haro, rompendo il silenzio che aveva finora regnato nel cockpit del Mobile Suit. Inutilmente. Poi, un altro rumore. Un crepitio. Una comunicazione digitale, inintelligibile da principio, poi mano mano più chiara. Haro fece ruotare l'Omega Gundam in maniera che il suo comunicatore laser si allineasse meglio con la sorgente della trasmissione. Una voce umana risuonò cristallina in cabina: “Veicolo sconosciuto che sta inviando un SOS via UHF, parla la nave da sbarco Rah Calium della flotta Lond Bell della Federazione Terrestre, se siete in grado di contattarci su laser commlink passate su questo indicando nome del vascello e natura dell'emergenza. Questo messaggio verrà ripetuto su UHF e VHF...” Gli altoparlanti delle radio UHF e VHF nel cockpit dell'RX-78-99 fecero eco a loro volta con lo stesso messaggio. Haro cessò l'esecuzione della subroutine installatagli da Kai durante il viaggio d'andata verso la Topkapi e contattò i nuovi arrivati col commlink laser.
“Maledizione!”, ringhiò Sayla colpendo con un pugno la consolle su cui stava armeggiando, “quel bastardo ha fatto sganciare il nostro shuttle dall'approdo poppiero non appena ha messo piede su questa maledetta nave!” Si voltò verso Kai, che si massaggiava il collo dopo il suo tentativo di strangolarlo e consultava lo schermo di un computer incassato nella parete in fondo alla plancia del Topkapi. “Andando alla deriva per tutto questo tempo, potrebbe già essere finito nel bel mezzo delle Nubi di Kordylewski...”, continuò lei con un sospiro, “...nemmeno Haro potrebbe rintracciarlo, lì... Se non altro, sono riuscita a mandare offline il comando a distanza di M'Quve, ma comunque siamo bloccati qui, come loro... Ci tocca aspettare Bright!” Kai non fece una piega, né sembrò darle retta. “Si può sapere cosa diavolo stai facendo, adesso?”, urlò infine la donna. Kai non distolse lo sguardo dai monitor, mentre le rispondeva. “Non ti pare strano che un pezzo grosso come M'Quve sia venuto qui di persona? Conciato com'è, poi? E che se ne stava scappando via con l'intenzione di far saltare tutto, senza nemmeno aver messo le mani sull'Omega Gundam?” Sayla rifletté per un istante e mosse qualche passo verso il suo vecchio commilitone. “A cosa stai pensando?”, chiese, e nel chiederlo si rese conto che era tutto vero: I NewType, decisamente, non esistevano. “Qualcosa in questa storia non mi tornava...”, rispose il giornalista, distogliendola da quell'amara epifania, “...mentre ero legato, ho prestato attenzione a tutto quello che il nostro amico ha fatto con questo terminale... ho memorizzato ogni percorso, ogni passaggio... nel caso mi fossi alla fine salvato, come alla fine é successo, grazie a te!” Rivolse un sorriso a Sayla, che non venne ricambiato. La tensione sul volto di lei era palpabile e Kai decise di non tirarla per le lunghe: “A M'Quve non frega proprio niente dell'Omega Gundam!”, sospirò, “Qui, stava cercando altro. Stava agendo per conto di qualcuno ancora più importante di lui... per recuperare qualcosa contenuto in questi database... o, più probabilmente, per distruggerlo!” Sayla guardò il monitor a sua volta e lesse ad alta voce: “Progetto Cosmo Babylonia...” Sullo schermo c'era una mappa digitale della Sfera Terrestre, con la rappresentazione dei vari Bunch di colonie orbitali. Sayla ne indicò un paio. “Non ricordavo che ci fossero delle colonie, lì” “Non ci sono”, confermò Kai, “non ancora!” Il reporter selezionò una delle colonie indicate da Sayla. Si aprì una legenda con la dicitura “Frontier IV”. “Un nuovo programma di colonizzazione spaziale?” domandò Sayla. Kai abbandonò il computer, sprofondò le mani nelle tasche dei pantaloni e si diresse a passo lento e claudicante verso la consolle sulla quale aveva lavorato Sayla fino a poco prima. “La Massive Dynamics, se semplifichiamo tutto, é fondamentalmente una compagnia edile.”, ragionò ad alta voce, “Queste guerre non le servivano a proiettarsi in un nuovo business...” Sayla colse dove voleva andare a parare Kai. “Loro... volevano che la popolazione diminuisse, ma anche che fossero distrutte quante più colonie possibile... per poter riprendere a costruirle!”, disse inorridita. Kai, ora fermo davanti alla consolle principale con le mani ancora infilate nelle tasche, si morse un labbro ed annuì. Sayla raggiunse Kai di corsa, lo scostò da parte e iniziò ad ispezionare tramite i terminali ogni singolo hangar della Topkapi. “Che fai?”, chiese Shiden. “Dobbiamo trovare un modo per filarcela da qui e distruggere questa nave prima che M'Quve riesca a liberarsi!”, rispose lei, risoluta. “Ma perché? Lond Bell avrà ricevuto l'SOS di Haro, ormai! Saranno qui a minuti e questa nave è la prova di quello che è successo davvero negli ultimi vent'anni!”, sentenziò Kai. Sayla, continuando ad armeggiare alla consolle, si voltò verso di lui. “Scordati di poter raccontare mai questa storia, Kai! Non puoi dire a cinque miliardi di persone che dieci miliardi di loro congiunti sono morti per un appalto edile! Scateneresti un'altra guerra!” Kai non rispose, guardando fisso davanti a sé. “Bright Noa è un brav'uomo. Gli racconteremo tutto e definiremo cosa fare! Ma M'Quve, va fermato subito, qui ed adesso...”, aggiunse lei. Poi, capì che Kai non taceva perché colpito dalla profondità del suo eloquio... tornò a voltarsi verso la consolle, e dovette aggrapparsi ad essa per non svenire: Sul monitor, l'interno di uno degli hangar prodieri, siti nella direzione opposta a quella da cui i nostri erano entrati... Al centro dello schermo, uno Zaku. Dipinto di rosso, rosso come il sangue, rosso come... “Non é possibile...”, riuscì ad articolare Sayla. “Beh, questa nave dopotutto apparteneva a Dozul!”, rispose Kai, “Mi ero sempre chiesto che fine gli avesse fatto fare, dopo aver destituito tuo fratello per la morte di Garma!”
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« Risposta #29 il: 26 Marzo 2014, 00:44:25 » |
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Comandato manualmente dall'esterno da una coppia di Geara Zulu, il portello della baia d'attracco dove stazionava lo shuttle di salvataggio sul quale s'erano imbarcati M'Quve ed i suoi uomini, finalmente si aprì. “Il collegamento è stabilito, Colonnello!”, disse il tenente facendosi da parte ed offrendo al suo superiore libero accesso al minuscolo monitor del commlink laser di bordo. M'Quve si avvicinò all'apparato e inserì un codice alfanumerico su una tastiera. La videata passò dal blu scuro con sovrimpressi i dati di collegamento all'inquadratura di un uomo biondo sulla cinquantina, dall'aspetto aristocratico e marziale, così come gli abiti che indossava, i quali ricordavano non poco le Grandi Uniformi vestite dai nobili della vecchia Europa del diciannovesimo secolo del vecchio calendario. M'Quve portò la mano destra alla fronte eseguendo in maniera ineccepibile, nonostante le sue condizioni, il saluto militare. “Lord Ronah”, esordì, “mi scuso per averla disturbata all'ora di pranzo...” “Non se ne preoccupi, Colonnello”, sorrise l'altro restituendo il saluto, “piuttosto mi aggiorni sulla missione.” M'Quve esitò qualche istante, quanto bastò al suo interlocutore per perdere il buonumore ed intuire l'intoppo. “Milord, siamo riusciti a salire a bordo della Topkapi, era nascosta poco oltre le Nubi di Kordylewski...” “Le Nubi di Kordylewski!”, ripeté forte Ronah applaudendo una volta, “Un nascondiglio tanto perfetto e ovvio che nessuno ci avrebbe mai pensato!” “I dati del Programma S.I.D.E., dei progetti delle colonie spaziali tipo Island 3, gli archivi contabili di Zeonic e Anaheim, i nomi di tutti i membri dello staff originario della Massive Dynamics e perfino la bozza del nuovo programma Frontier e di Cosmo Babylonia... erano tutti nel database del computer centrale, come speravamo. Non ci sono evidenze che siano mai stati copiati o riversati altrove...”, aggiunse M'Quve. “Tuttavia, mi sembra di capire che non tutto sia andato per il meglio, Colonnello”, rispose l'altro massaggiandosi nervosamente il mento, “che ne é dell'Omega Gundam?” M'Quve deglutì prima di rispondere. “Shiden é riuscito a trafugarlo prima che potessimo distruggerlo, sir...”, ammise con rammarico, “...ha ricevuto supporto dall'ultima persona che pensavamo avremmo mai affrontato...” Meitzer Ronah socchiuse gli occhi e si massaggiò le tempie. “Si riferisce al Maggiore Sarah Aznable di Neo Zeon, M'Quve?” “Precisamente.” Il nobile distolse lo sguardo dallo schermo, come in un tentativo di sopprimere un poco aristocratico impeto di rabbia. “Posso almeno sperare che la Topkapi sia già stata demolita con tutti i suoi segreti, Colonnello?”, tuonò infine. “Milord, l'urgenza della mia chiamata é dovuta proprio a questo...” M'Quve abbassò lo sguardo prima di continuare. “...abbiamo bisogno di rinforzi!”
L'Omega Gundam, dopo qualche secondo d'impasse dovuto al suo singolare pilota, si lanciò all'inseguimento dei Geara Zulu. Pur vantando un sistema di puntamento ed acquisizione dei bersagli che surclassava senza sforzo qualsiasi Mobile Suit moderno, i vernier che costituivano il suo sistema propulsivo erano precisamente gli stessi del Gundam originario, quindi estremamente performanti... vent'anni prima! Haro non ebbe il minimo problema nel calcolare l'enorme gap esistente tra la velocità di punta che riusciva ad ottenere e la ben superiore velocità di crociera dei suoi avversari, qualcosa come il 40% in più. Altrettanto matematica fu la consapevolezza che i Geara Zulu avrebbero raggiunto la Topkapi diversi minuti prima del Gundam. Diversi minuti potevano fare la differenza nella sopravvivenza della sua padrona. L'unico modo per rallentare i suit nemici sarebbe stato ingaggiarli, ma il bug tra i due sistemi operativi impediva ancora la selezione di un'arma secondaria: l'Omega Gundam voleva usare il lanciamissili contenuto nell'avambraccio sinistro, l'unico ancora carico, ma il Gundam originario lo vietava perché i suoi sensori non avevano evidenza -né avrebbero mai potuto averla- che detto avambraccio fosse libero dallo scudo previsto dalla sua dotazione di combattimento standard... per cui insisteva nel selezionare il Beam Rifle, ancora inutilizzato, impugnato dalla mano destra. Ma su questo, ad opporsi era l'Omega Gundam, che riteneva la scelta dell'arma a raggi fallimentare, avendo ancora metà dotazione di missili autocercanti a disposizione. Poi, i Geara Zulu, forse accortisi d'essere inseguiti, accelerarono ulteriormente. Il vecchio radar dell'Omega Gundam mostrò ad Haro un altro bug, stavolta provvidenziale: il sistema di tracciamento automatico non riusciva a concepire che quegli oggetti così veloci potessero essere dei Mobile Suit, quindi li riclassificò istantaneamente come “caccia spaziali”. Se Haro avesse avuto familiarità col concetto di “colpo di fortuna”, lo avrebbe riconosciuto in quell'incidente. Se l'Omega Gundam pensava di avere a che fare con dei caccia, allora gli avrebbe permesso di selezionare i cannoncini Vulcan. Inutili, per abbattere un mobile suit... ma dotati di proiettili abbastanza veloci da colpire e rallentarne uno in fuga. Haro selezionò i Vulcan, con successo. Fu proprio a quel punto, dopo quella piccola vittoria del vecchio software sul nuovo, che il sistema di combattimento dell'Omega Gundam agganciò un altro bersaglio. Uno Zaku rosso.
Sayla aprì il portello del cockpit dello Zaku di suo fratello, si sporse dentro ed inspirò con forza. Sperava che il profumo di suo Casval, o anche solo l'odore del suo sudore, fossero rimasti intrappolati nell'aria stantia dell'abitacolo. Ma non sentì nulla. Sospirando per l'ennesima delusione di quel maledetto giorno, infilò il casco di pilotaggio e ne assicurò la tenuta stagna con la sua normal suit. “Ehi, guarda!”, gridò Kai che ancora si trovava giù, al livello dei piedi del Mobile Suit. Sayla vide cosa le stava indicando: su una paratia dell'hangar era stato posizionato uno scudo appartenuto indubbiamente ad Mobile Suit federale, vistosamente danneggiato. Mentre ancora stava guardandolo, Kai la raggiunse con un salto. “Dev'essere lo scudo che Amuro perse al suo primo scontro con Char, appena fuori Side 7”, continuò l'uomo, non provando minimamente a nascondere il divertimento che gli suscitava quel ricordo, “sembra come fosse stato ieri: Amuro aveva scaricato tutta l'energia usando il rifle, così Ryu rimorchiò il Gundam col Core Fighter fino alla White Base... Era la prima battaglia anche per lui e aveva tenuto gli occhi chiusi per buona parte del volo... così non s'era accorto che avevano lasciato lo scudo alla deriva nello spazio... a quanto pare lo aveva preso Char!” “Chiudi il becco ed entra!”, gli rispose Sayla accennando il gesto di chiudergli la portiera dell'abitacolo sulla testa. Kai si accomodò dietro al sedile, sfruttando lo spazio normalmente riservato alle scorte di cibo d'emergenza e che era stato lasciato vuoto. Sayla chiuse il portello e inizializzò la sequenza d'avvio: i tre monitor panoramici s'accesero uno dopo l'altro mostrando l'esterno. “Sembra funzioni tutto!”, disse rincuorata. “Munizioni nel rifle?”, chiese Kai. “Solo cinquanta colpi... ce li faremo bastare!”, rispose lei. “Come speri di superare i suit di M'Quve con questo vecchio catorcio e soli cinquanta colpi?” “Appena fuori di qui, contatto Haro e gli dico di coprirci la fuga...” “E... hai detto che Haro adesso ha il cervello elettronico del Gundam di Amuro, giusto?” “Si.” Kai fece schioccare la lingua contro il palato. Sayla odiava quel rumore. Interruppe la manovra d'avvio dello Zaku. “Cosa c'é?!”, sbottò. “Te lo ricordi, vero, che quel computer aveva un modulo di memorizzazione all'avanguardia...” “Certo che lo ricordo!”, protestò la donna. “Lui si ricorda tutto, ma proprio tutto-tutto... sarebbe capace di dirti quanti colpi ha sparato durante l'intero conflitto, o perfino quante volte Amuro lo ha riverniciato...” Sayla si sentì arrivare il sangue agli occhi. “Vuoi arrivare al punto?!”, urlò. “Il punto é...”, disse Kai cercando di mantenere la calma, “...che sono abbastanza sicuro che se Haro vedrà questo Zaku rosso fiammante... ci farà il culo a strisce prima che tu possa comunicargli qualsiasi cosa!” Il silenzio calò nel cockpit. “Mi sa che prendo anche quello scudo!”, disse dopo qualche secondo Sayla. “Sì, buona idea!”, approvò Kai.
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