IV
“È bloccato dall’interno”, urlò da sopra il rimorchio del Gundam superstite il prof. Ray a Bright, “anche il mio accesso da amministratore è stato resettato!”
Tem Ray, a dispetto dei suoi quasi cinquant’anni, scese giù dal rimorchio con un salto, ignorando la piccola scaletta verticale montata sul veicolo solo pochi metri più in là, mostrando la stessa agilità con cui vi era salito nel vano tentativo di fermare suo figlio.
“Cosa facciamo adesso, signore?”, domandò Bright, non poco confuso da questi ultimi, improvvisi sviluppi.
“Corra a recuperare un’altra motrice, dannato imbecille! C’è mio figlio, intrappolato lì dentro!”, rispose furioso l’ingegnere.
“Allora ce l’hai, un cuore, Tem Ray!”, pensò Bright, mentre si voltava alla volta della saracinesca dello spazioporto, ignorando gli insulti dell’impiegato della Anaheim ma non concedendogli parimenti l’educazione di alcuna risposta alle sue richieste.
Un’ombra oscurò improvvisamente la scena, polvere e detriti iniziarono a sollevarsi in dense nuvole rossicce, un sibilo crebbe in intensità, tacitato da uno schianto metallico.
Bright si voltò e vide lo Zaku di Gene, mitragliatore in mano, che sovrastava il rimorchio telonato che custodiva il prezioso prototipo e la vita del giovane che v’era voluto salire a bordo.
Dopo un attimo di smarrimento dovuto all’agghiacciante spettacolo, Tem Ray si voltò verso Bright urlando con tutto il fiato che aveva in corpo:
“Il fuoco di copertura, presto!”
Char si riallacciò il visore sul volto mentre teneva sotto tiro Sayla con la stessa pistola di cui l’aveva disarmata. La ragazza era seduta a terra, le gambe piegate su un lato, e non gli aveva staccato gli occhi di dosso per un istante, i delicati tratti del viso irrigiditi in un’espressione tra il sorpreso e l’inquisitorio. Char stentava a crederlo e certo non aveva voglia né tempo per sincerarsene empiricamente, ma nel suo cuore già sapeva.
Sapeva che quella, a dispetto dei suoi modi così risoluti ed estranei al ricordo che aveva di lei, era sua sorella. E sapeva che lei vedendo il suo volto era arrivata alla medesima conclusione. Per questo stava calandosi di nuovo la maschera sul volto… per eliminare almeno metà di quell’imbarazzante certezza. Ma, da uomo scaltro qual’era, aveva scelto di eliminare o perlomeno ridurre le certezze di lei, non le sue. Arthesia. Chi l’avrebbe mai detto!
Qualcosa, nel visore che celava parte del suo volto e ne alterava il resto tramite una serie di complessi ologrammi, non funzionava più. Nonostante la maschera fosse bene allacciata, le finte cicatrici e bruciature non venivano più proiettate sulle sue guance.
“Poco male”, pensò, “Sono mesi ormai che nessuno mi guarda davvero in faccia, quando mi rivolge la parola”. Dopotutto, le cicatrici non erano visibili attraverso i monitor e il Maggiore Aznable aveva avuto cura di non farsi mai fotografare chiaramente, né prima né dopo il suo falso incidente. In molti, a Zeon, non sapevano che faccia avesse.
Fece per raccogliere il casco spaziale, ma una voce lo congelò.
“Fermo dove sei e getta l’arma!”
Char voltò appena il capo: un gruppo di soldati federali in normal suit lo teneva sotto tiro. Sorrise e si congratulò con sé stesso pensando: “Altro che nave ospedale!”
Alzo le mani senza mollare la pistola, voltandosi verso i nuovi arrivati cosicché potessero vederlo bene.
Quello che sembrava essere il leader del plotone era un uomo sulla cinquantina, coi gradi di Capitano di Vascello sulla tuta spaziale. “Il comandante della nave, nientemeno!”, si sorprese Char. L’attacco scellerato di Gene doveva aver messo i Federali in crisi assai più di quanto fosse lecito aspettarsi. Anche l’ufficiale anziano lo squadrò con attenzione, poi disse:
“Maggiore Aznable...”
Già, a Zeon molti non conoscevano il suo aspetto. Ma il nemico federale aveva imparato a riconoscerlo al volo, e bene. Effetto collaterale del timore, evidentemente.
“Maggiore Char Aznable, sappiamo chi é lei”, continuò Cassius, “non ci costringa a spararle, preferiremmo non doverlo fare. Getti la pistola e lasci la ragazza!”
La ragazza! Char fu assalito da un dubbio atroce… forse i Federali sapevano del suo segreto... del loro segreto? Doveva scoprirlo. Doveva agire in fretta.
Abbassò la mano che impugnava l’arma ma, invece che gettarla via, la puntò diritta alla testa di Sayla. Cassius non fece una piega e disse semplicemente:
“Come preferisce… Fuoco!”
I soldati iniziarono a sparare, ma Char, pago dell’aver verificato il suo dubbio, fu assai più svelto: spinse Sayla di lato, accese il jetpack e schizzò in volo prima che le raffiche potessero raggiungerlo, poi si infilò il casco e disse: “Slander, ora!”
Un singolo colpo da 300mm piombò nel bel mezzo del plotone, lanciando i militari per aria come stracci e sollevando una densa nuvola di polvere.
Paolo Cassius si trascinò bocconi fuori dalla coltre, ansimando e gemendo, mentre una figura gli si faceva vicino e lo aiutava a voltarsi supino.
“Tutto bene?”, chiese a fatica lui.
Sayla annuì, poi abbassò lo sguardo sul petto dell’anziano comandante: era letteralmente crivellato da macchie purpuree.
“Devi… aiutarmi a fare una… cosa!”, gemette l’ufficiale.
Gene atterrò pesantemente sulla piattaforma su cui s’affacciava lo spazioporto nord. Avrebbe potuto atterrare più docilmente, ma le scorte di energia iniziavano a scarseggiare e un bell’atterraggio senza vernier faceva sempre il suo effetto sul nemico, specie se esso era costituito da uno sparuto gruppo di tecnici disarmati e a piedi. Adesso, aveva l’appetitoso bottino della sua intera azione al centro del monitor: un rimorchio privo di motrice su cui era caricato qualcosa, verosimilmente il prototipo di un nuovo Mobile Suit, quasi totalmente coperto da un doppio telo di colore verde-azzurro. Gene si leccò le labbra gustando il sapore salmastro del suo sudore, causato dall’ eccitazione di quell’istante. Il sapore della vittoria, pensò, il sapore dell’onore, il sapore di una promozione tra i suoi ranghi. Decise di contattare il Sergente Maggiore Denim prima di agire… voleva che fosse ben chiaro che quella sarebbe stata l’ultima volta che gli avrebbe parlato da subalterno.
“Denim da Gene, tally-oh, sweet lock-on, candy… one-five”.
Lo zelo nella voce e l’inusuale utilizzo della terminologia procedurale corretta fece trasalire Denim nel suo abitacolo: quel matto voleva distruggere anche l’ultimo prototipo, aveva ancora quindici colpi per procedere ed il bersaglio già agganciato!
“Gene da Denim, negativo, hold-your-fire, ripeto, hold-your-fire, ordine diretto dell'OpCom!”, rispose di getto e quasi urlando l’ex-sergente, riportando al suo sottoposto l'ordine datogli da Char, “non danneggiare in alcun caso l'ultimo prototipo”.
I microfoni esterni captarono e fecero risuonare nel cockpit dello Zaku di Denim il boato ritmico di una raffica. Denim chiuse gli occhi, aspettandosi il peggio dallo scellerato compagno.
Ma la voce che crepitò nelle sue cuffie apparteneva al più giovane della sua pattuglia:
“Denim da Slander, c’è qualcosa che non va, presta soccorso a Gene!”
Denim riaprì lentamente gli occhi e guardò sul monitor principale settando il massimo ingrandimento:
Lo Zaku di Gene era in ginocchio al lato del prezioso rimorchio, apparentemente disarmato e bloccato in un qualche modo… mentre un braccio metallico dipinto di bianco era emerso da sotto il telone protettivo, aveva afferrato la testa del Mobile Suit di Zeon e adesso la torceva e la scuoteva, come fosse intenzionato a strapparla via con la sola forza bruta…
Il cockpit ora era illuminato in maniera intermittente. La luce proveniva da tre grandi schermi panoramici montati di fronte e ai lati del sedile di pilotaggio che mostravano l'ambiente esterno a 180 gradi. L'intermittenza della stessa era dovuta al doppio telone verde-azzurro che copriva quasi totalmente il Mobile Suit, correndo da poco sotto la telecamera principale montata in cima alla testa fino alla punta dei piedi. La battaglia all'interno di Side 7 aveva probabilmente danneggiato il computer del controllo meteo, quindi adesso l'interno della colonia era battuto da un vento artificiale ostinato che, se da una parte dissipava i fumi degli incendi, dall'altra ne alimentava le fiamme. E batteva e agitava qualunque cosa potesse oscillare alla brezza, compreso appunto il telone protettivo.
Le dita di Amuro battevano veloci sui tasti, alternandosi tra la consolle principale del Gundam e la minuscola tastiera di Haro. Il giovane stava copiando affannosamente e a mano le impostazioni per il combattimento che aveva rubato dal computer del padre e usato sul simulatore di Guncannon quella stessa mattina. Di tanto in tanto, i conti non tornavano ed era costretto ad improvvisare.
“Questo affare somiglia al Guncannon solo apparentemente!”, si trovò a pensare.
Haro prese a saltellare sulle sue ginocchia, attirando la sua attenzione mentre ripeteva con la sua squillante voce sintetica:
“Mamma mia, guarda là! Mamma mia, guarda là!”
E Amuro vide.
Vide, attraverso uno dei tre monitor, uno Zaku color verde smeraldo che atterrava pesantemente a pochi passi da lui. Il Mobile Suit di Zeon gli mostrava un fianco, ma sembrava intenzionato a ruotare verso di lui non appena avesse riguadagnato il pieno equilibrio sulle sue titaniche gambe.
Il terrore paralizzò Amuro per un istante, facendo scivolare Haro dalle sue ginocchia giù sul fondo dell'abitacolo. Poi, il senso di autoconservazione ebbe il sopravvento, le mani trovarono le leve di comando quasi da sole, mentre sui monitor apparivano complicati grafici per l'identificazione del nuovo arrivato e uno schermo più piccolo, montato su un braccio oscillante, emergeva automaticamente da dietro il poggiatesta del sedile per frapporsi tra il volto di Amuro e quella paurosa visione.
La mano sinistra del ragazzo si serrò su una cloche. Il pollice, come dotato di vita propria, premette il tasto più prominente.
Il ronzìo di un motore elettrico che andava in rotazione precedette di un istante il deflagrare ritmico di una mitragliata.
Bright ristette alla vista dello Zaku che atterrava a nemmeno dieci metri da lui, quasi facendosi cadere di mano il microtelefono col quale avrebbe dovuto chiedere rinforzi. Al suo fianco, Tem Ray, sicuramente più avvezzo a simili incontri, si era voltato verso di lui e gli strillava qualcosa mentre il giovane ufficiale si scopriva incapace anche solo di ascoltarlo, paralizzato com'era dal terrore.
Lo Zaku fletté sulle ginocchia per compensare il contraccolpo dell'atterraggio, poi ruotò la testa verso il rimorchio, ormai inerme, riconquistando lentamente una piena postura eretta e ruotando il torso e, ben più importante, il suo mastodontico fucile mitragliatore da 300mm verso il prezioso carico. Bright non se la sentì e chiuse gli occhi.
Una raffica fece vibrare l'aria e fece tornare il giovane in sé. Anche con gli occhi chiusi aveva percepito che quei colpi erano stati esplosi altrove, non provenivano dallo Zaku.
La prima cosa che vide fu Tem che adesso gli dava le spalle e non gridava più.
Poco più in là, vampate provenienti da una qualche bocca da fuoco perforavano il telone del rimorchio federale, esplodendo colpi che si abbattevano sullo Zaku all'altezza degli avambracci.
Bright fece appena in tempo a lanciarsi sull'irascibile ingegnere della Anaheim e spingerlo via prima che le mani amputate dello Zaku, con ancora in pugno il fucile, piombassero al suolo là dove i due federali sostavano poco prima.
Poi, fu il turno dei cigolii.
Bright, ora carponi al suolo, alzò lo sguardo. Pur non essendo un pilota, sapeva bene che lo Zaku era uno dei primissimi Mobile Suit dotati di gambe. Il suo sistema di gestione dell'equilibrio era perfino più arretrato di quello del Guncannon... non c'era modo che, a fronte di un cambio del bilanciamento nel suo peso come appunto la perdita istantanea di entrambe gli avambracci, una macchina come quella potesse restare in piedi.
Seguì con la bocca aperta le oscillazioni del Mobile Suit verde mentre si sbilanciava all'indietro, quindi cercava goffamente di compensare, quindi cadeva a faccia in avanti tentando di ripararsi protendendo i due moncherini che vomitavano fumo e scintille dalle estremità... giù, dritto sul rimorchio.
Ma non vi arrivò mai.
Con un potente strattone, un braccio meccanico meccanico laccato di bianco lucido e lungo oltre sei metri emerse da sotto il telone verde-azzurro. Alla sua estremità, una mano larga un metro e mezzo, che sembrava inguantata con neoprene, piantò le lunghe dita nel visore posizionato al centro della testa dello Zaku, modificandone la caduta e costringendolo in ginocchio.
Poi, le dita si serrarono sul grosso tubo che attraversava orizzontalmente la metà inferiore della testa del Mobile Suit... il braccio smise di spingere e iniziò piuttosto a tirare.
“É come se cercasse un appiglio per alzarsi in piedi!”, si stupì a pensare Bright.
Il rimorchio iniziò ad oscillare alternativamente sui lati... gli ammortizzatori delle gigantesche ruote protestarono con dei sinistri cigolii... i legacci elastici che tenevano il telone in posizione si tesero uno ad uno, poi iniziarono a spezzarsi... il lato destro del telone cedette, una gigantesca gamba meccanica bianca svettò in verticale per poi descrivere una parabola e piegarsi piantando al suolo un piede grande come una grossa autovettura... più in là, una seconda mano emerse da sotto la copertura puntellandosi aperta per terra e sollevando una nuvola di polvere... i legacci sul lato opposto cedettero a loro volta, rivelando una presa d'aria contornata di vernice gialla, dal cui interno emerse un soffio di vapore accompagnato da un sibilo crescente che fendette l'aria dentro Side 7.
“Non può averlo fatto...”, pensò ad alta voce Tem Ray.
Bright fece per rispondergli qualcosa, quando un secondo sibilo di turbina unito ad un tonfo sordo lo raggiunse alle spalle. I due uomini si voltarono e videro un secondo Zaku che era appena atterrato, in maniera assai meno teatrale del primo, una ventina di metri più a monte.
Un'ombra sorvolò i due spettatori inermi, rubando ancora la loro attenzione.
Dopo una breve parabola, la testa dello Zaku di Gene atterrò ai piedi del Mobile Suit di Denim.
Bright tornò a guardare verso il rimorchio e vide finalmente il Gundam in piedi che impugnava con entrambe le mani quel che restava del primo Zaku, per poi gettarlo da parte come fosse un sacco dell'immondizia.
Bright tornò a guardare lo Zaku superstite, bloccato davanti alla testa mozzata del suo compagno, e si sorprese a immaginare quanto più macabra sarebbe stata quella scena se, al posto di giganteschi robot, ci fossero stati uomini.
“Sembra una sfida”, pensò, tra sé.