matte
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« Risposta #1 il: 28 Luglio 2007, 18:55:13 » |
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Die weiße Königin (La regina bianca) Capitolo 1. Il volo dell’Unicorno
(annotazione: non ho fatto in tempo a fare una correzione di bozze come avrei voluto, per cui consideratelo a tutti gli effetti una beta version)
Hamarn aprì gli occhi, scoprendoli velati di lacrime. Eppure, era convinta di non aver mai amato quella donna, nonostante fosse sua madre. E quell’uomo, che diceva di essere suo padre, e non conosceva meglio dei suoi camerieri. “E’ meglio così”, pensò, ripetendo per l’ennesima volta quel mantra. “Non li vedrò più, per cinque anni almeno.” O forse anche di più. Sollevò la manica della camicetta bianca: l’orologio, di scintillante argento, indicava le 11 e 15 minuti. Meno di mezz’ora alla partenza. Meno di mezz’ora, ed avrebbe lasciato la Terra. “Chissà come dev’essere vivere nello spazio…” pensò, rinserrando gli occhi. Aveva letto molto, a proposito dell’Universität Thomas und Golo Mann, la più elitaria di tutti gli istituti superiori delle Colonie. Fondata cinquant’anni prima per allevare e crescere i quadri dirigenti del Reich, dopo la fine della Guerra aveva cambiato nome – e la sua fama si era intanto diffusa in tutta la sfera terrestre. Questo quanto le avevano detto. E che avevano voluto conoscesse. Molto altro le restava da scoprire – od aveva appreso, dai blog e dai racconti di quanti quella strada avevano intrapreso, per abbandonarla pochi mesi, a volte pochi giorni dopo. La ferrea disciplina, l’assoluta chiusura per quanti non appartenessero alle Colonie… Hamarn non s’era spaventata, nemmeno per un istante. Scoperte le difficoltà che al varco l’attendevano, quell’avventura s’era trasformata in una sfida. Ed Hamarn amava le sfide. Come quando, poco più che bambina… Nigel, il vecchio cameriere, raccontava spesso quella storia, sorridendo di gusto… sì, come quando suo padre l’aveva portata in Argentina, a conoscere un suo amico, allevatore di cavalli. Un uomo grasso e sempre allegro, di lontana origine russa – Nikolaev, o qualcosa del genere. Ricordavano, tutti coloro che avevano assistito, in quel tardo pomeriggio estivo, del bianco stallone che quattro inservienti non riuscivano a trattenere, e che nessuno era mai riuscito a cavalcare. Mentre suo padre e Nikolaev discutevano di cosa fare di quell’animale, bellissimo certo – ma invero inutile, ribelle com’era a qualsiasi forma di addestramento – Hamarn aveva sentito uno strano sapore penetrarle per le narici, ed uno strano pensiero aveva preso possesso di lei, inebriante e potente come nessun’altra sensazione che mai avesse provato nella sua vita. “Padre, compralo per me!” Ed il padre, il futuro presidente Donovan Kharn, aveva sorriso sotto i suoi baffi larghi e biondi. “Solo se riuscirai a domarlo!” aveva risposto, non credendo che la propria unica figlia lo prendesse in parola, e sfuggisse attraverso il recinto di legno, penetrasse nell’arena dove i cavalli di Nikolaev avevano sfilato, ed affiancasse i quattro gauchos – troppo presi dalle bizze del cavallo per accorgersi di lei. “Hamarn!” esclamò suo padre, bianco come un lenzuolo, la mano protesa a richiamare la figlia, tremolante come una foglia rinsecchita dall’incedente autunno e scossa dal vento dell’inverno. E come dimenticare Nikolaev, improvvisamente serio – come se in Hamarn e nei suoi occhi scintillanti avesse visto qualcosa che già conosceva, e non aveva più ammirato, da molto – moltissimo tempo. “Lasciala fare, amigo…” “Ma…” “Lasciala fare, ti ho detto… Andrès!” Il più vecchio dei gauchos aveva annuito, facendo segno agli altri di lasciare il cavallo. Che, sentendosi libero, smise di dimenare il capo e la folta criniera. Ed ora stava di fronte alla piccola Hamarn, nitrendo rabbioso – come se cercasse di spaventare la bambina. Che pure non aveva paura. Quella sera, di fronte alla moglie, Andrès avrebbe raccontato – e davvero non avrebbe creduto alle sue parole, di come la bambina dalla chioma di rame scintillante si fosse avvicinata al cavallo, e questo l’avesse attesa, immobile. Di come non avesse evitato le sue mani, ed avesse accettato le sue carezze – persino che lei gli sussurrasse qualcosa nelle orecchie. E poi… e poi di come, all’improvviso, Hamarn avesse afferrato la sua criniera, e si fosse tirata sulla sua schiena. Lo stallone aveva reagito, infuriandosi, scalciando e dimenandosi con la rabbia della natura violata nella propria verginea purezza. Ma Hamarn, che prima di allora non aveva mai cavalcato nulla di più grande e ribelle di un placido pony, non s’era scomposta – aggrappatasi alla criniera con tutte le sue forze, aveva lasciato che lo stallone si sfuriasse… E come la tempesta, raggiunto il suo culmine che scuote il mare e le coste, le abbatte e semina su di esse distruzione, per trasformarsi in una scintillante giornata di sole … così il cavallo s’era placato, addolcito. Ed i nitriti di rabbia s’erano mutati in un dolce soffiare. Hamarn l’aveva carezzato, allora, ed il cavallo aveva scosso la criniera – come sorridendo. I gauchos, Nikolaev, Donovan Kharn – tutti, insomma – erano increduli. “Glielo regalo…” aveva sussurrato Nikolaev, incredibile anche quello. Lui, che non aveva mai regalato nulla a nessuno! “Ma José…” “Lascia stare… è un mio regalo, Donovan… e non voglio sentire storie.” “Non ti sarai innamorato di quella bambina?” aveva allora sorriso la moglie di Andrès, alla conclusione di quel racconto. Ed il silenzio del marito aveva qualcosa di inquietante… Ma questo, ad Hamarn, non l’avevano mai raccontato. Sullo schermo del suo iPhone, Hamarn stava guardando l’ultima foto di Kefren – l’aveva chiamato così, lo stallone un tempo ribelle. Il suo unico amico. Aveva cinque anni, ormai – e la furia della gioventù s’era placata, da un bel pezzo. Ma restava l’animale più bello e veloce che si fosse mai visto – un solo difetto: soltanto Hamarn riusciva a cavalcarlo. “Ci rivedremo presto, per fortuna…” sospirò. Kefren era già nello spazio, da quasi un mese. L’avevano inviato prima di lei, insieme a tutti i suoi bagagli. Una frazione, per fortuna, di quello che sua madre avrebbe voluto portasse con sé. Ma Hamarn sapeva essere irremovibile e dura come una roccia, quando l’occasione lo demandava. “Scusami, è libero questo posto?” Una voce dall’accento latino richiamò Hamarn dalla fuga dei suoi pensieri. Era ragazza della sua età, o giù di lì. Indossava un maglioncino nero, sottile, dalle cui maniche a mezzo braccio erompevano quelle candide di una camicetta dall’inconfondibile taglio italiano, pudica quanto la lunga gonna a colori sgargianti che le scendeva fin sotto il ginocchio. “Scusami, è libero?” “Certo… siediti pure.” La ragazza si sedette. Hamarn la guardò per un attimo, incuriosita. Aveva lunghi capelli castani, che le scendevano delicatamente lungo la schiena – ben curati, e che contrastavano in un forte gioco di luci ed ombre con la carnagione, candida come il latte. Sul collo, le scintillava il filo dorato di una catenella – simile a quelle medagliette battesimali che tanto diffuse erano, un tempo come allora, nei paesi mediterranei. “Italiana”, pensò Hamarn, “o spagnola.” La ragazza si voltò, improvvisamente, ed allungò la destra: “Mi chiamo Miriam Miranda… e tu?” “Hamarn Kharn, piacere” sorrise, stringendo la mano della compagna di viaggio. A quel nome, le guance di Miriam d’imporporarono di emozione e di sorpresa. Istintivamente, portò la sinistra di fronte ai denti larghi e candidi, come cercasse di nascondere lo stupore che le si era disegnato in faccia. “La figlia del…” “Sì, sono la figlia del vicepresidente Kharn…” sospirò Hamarn, pensando che la storia si stesse ripetendo per l’ennesima volta. Lafigliadelvicepresidentekharn… quella cantilena insopportabile che le impediva di condurre una vita normale. Ovunque andasse, preceduta dalla fama di suo padre… “Ma allora…” sospirò Miriam, emozionata, “… ma allora anche tu… anche lei … insomma… anche Hamarn Kharn studierà presso la Universität Thomas und Golo Mann?” “Ti prego… Miriam, giusto?... ti prego, Miriam… non cominciare anche tu con i salamelecchi… sì, andremo a studiare presso la stessa scuola. E, a quanto mi sembra di capire, abbiamo più o meno la stessa età.” Miriam annuì, emozionantissima. Hamarn Kharn! La teen-ager più famosa di tutto il pianeta! Hamarn Kharn, colei che si diceva – si diceva, fosse venuta al mondo nella Grande Piramide di Giza, e le cui prime grida avessero scosso le pietre millenarie dell’ultimo riposo del più grande dei Faraoni… Incredibile! Lei, la figlia di un semplice funzionario ministeriale avrebbe avuto come compagna di viaggio … e di scuola! … sì, avrebbe avuto come compagna quella ragazza! “Quando lo racconterò a papà Franius, non mi crederà!” pensò, ancora incredula. “Da vicino,” le sfuggì dalle labbra, “è ancora più bella che sulle copertine dei giornali.” “Hai detto, scusami?” rispose Hamarn, credendo che le avesse chiesto qualcosa. “No… niente, niente” rispose Miriam, scotendo il capo. Sì, era molto più bella. Era alta, Hamarn Kharn, molto alta – per una ragazza e per la sua età. Aveva una pelle candida, quasi marmorea, sulla quale le labbra sottile e scarlatte scintillavano come fossero di rubino. Era famosa, sulle riviste di moda, per i suoi capelli color del rame – stilisti e designer facevano la fila per disegnarle vestiti e corredi che s’intonassero con quei colori così naturali eppure alieni… E soprattutto per quei suoi occhi, sottili e verdissimi, agili e veloci – eredità della bisnonna materna, spagnola e gitana. Una fattucchiera, così si diceva, capace di ammaliare con il solo sguardo, e di avvincere a catene più forti del diamante. E pensare che Hamarn odiava quel suo corpo, magro ma morbido, ribelle a qualsiasi dieta od allenamento, che tanto la faceva sentire grassoccia… non aveva mai capito perché tanta gente si interessasse a lei. E, tuttosommato, abbandonare la Terra, vivere per qualche anno nello spazio, fra le Colonie, fra gente che probabilmente l’ignorava… forse non sarebbe stato tanto male. “Da dove vieni, Miriam?” le chiese Hamarn. In fin dei conti, pensava, lei sa di me già tutto… forse più di quanto io stessa sappia di me. “Sono di Roma,” rispose, “e mio padre lavora per il Ministero del Lavoro…” “Perdonami, un’altra curiosità, Miriam… come mai lo Spazio? Come mai le Colonie?” Miriam arrossì di nuovo. Parlare di sé stessa la metteva sempre a disagio. “Sai… ho vinto una borsa di studio… i mobile suit, sai – una passione che mi ha inculcato mio padre. Sin da quando ero bambina.” “Ma davvero? Hai vinto una borsa di studio per la Thomas und Golo Mann? Una borsa completa?” La ragazza annuì. E questo colpì Hamarn molto più profondamente di quanto il suo sguardo ed il suo volto lasciassero intendere. La grande accademia coloniale era severissima nel concedere sovvenzionamenti, ai “terragni” – come sprezzantemente chiamavano gli abitanti della Terra. Soltanto 3 borse venivano distribuite, ogni anno – ed una sola completa. Quella ragazza non era soltanto la figlia di un appassionato di mobile suit, ed in questa passione instradata sin dall’infanzia… “Hai paura?” le domandò, istintivamente. No: Miriam non aveva paura. Non ne aveva mai avuta, sin da quando le avevano comunicato la vittoria di quella borsa di studio. Non l’aveva spaventata, l’idea del viaggio, nello spazio, fra gente straniera, dagli usi e dai costumi tanto diversi…non la metteva a disagio pensare che, per cinque anni, forse otto, avrebbe vissuto fra gli uomini che avevano distrutto la sua infanzia, e minacciato di seminare la distruzione su tutta la Terra… no, perché sapeva che le cose erano cambiate. Perché sapeva che là, fra le Colonie, quell’avventura le avrebbe aperto tutte le porte che i suoi genitori per lei avevano sempre sognato. Ma era l’abbandonare i suoi genitori, e per chissà quanto tempo, che le agitava e smuoveva il cuore. “Sei molto attaccata, ai tuoi genitori?” Miriam annuì, ma non fece in tempo a rispondere. La voce del pilota annunciò che, entro un minuto, sarebbero iniziate le procedure di decollo. Che tutti i passeggeri dovessero allacciarsi le cinture di sicurezza, e prepararsi. Hamarn si allacciò la cintura senza difficoltà: nulla che non avesse già fatto, decine di volte – Miriam, per quanto dicesse il contrario, tremava come una foglia. Se ne accorse: le afferrò le mani, incerte, e le serrò la cintura. “Stai tranquilla…” sorrise Hamarn: “Andrà tutto benissimo.” La ragazza sorrise, e si abbandonò alla poltroncina. Chiuse gli occhi, e lasciò che una calda, piacevole, sensazione si diffondesse dal cuore nel resto del suo corpo… aveva trovato un’amica. Sì, un’amica.
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